∎ BIOGRAFIA
C’è ancora bisogno dei fiori!
Tutto sta nel sapersi mettere in ascolto per intercettare la domanda dei consumatori, i gusti e la disponibilità economica.
L’obiettivo: rendere l’acquisto di fiori “quotidiano”, come quello di frutta e verdura.
colloquio con Jessica di Giacomo di Marta Meggiolaro
La prima volta che ho parlato con Jessica, nel 2016, Olivia Brusca era un concept store in centro a Modena, in cui tutto verteva intorno al mondo delle piante e dei fiori. Mi aveva colpito lo stile delle sue composizioni, delicato, fresco, capace di catturare l’attenzione. Altro elemento importante, la sua disinvoltura nell’uso dei media – dal blog, ai social – con cui si promuove e si tiene in contatto con il pubblico. Dopo quattro anni, Olivia Brusca è cresciuta e ci siamo fatti raccontare da lei cosa significa oggi essere una fiorista di professione.
∎ Iniziamo dicendo che Olivia Brusca ora si trova a Bologna, giusto?
«Giusto. Due anni fa ho chiuso il negozio a Modena e ho preso uno studio nel centro di Bologna, non aperto al pubblico. Ci occupiamo, io e Davide (project manager di Olivia Brusca, compagno nel lavoro e nella vita), di consulenza e allestimenti per eventi aziendali e per i matrimoni, teniamo corsi di tecnica floreale, e quattro volte all’anno organizziamo vendite private aprendo il nostro spazio al pubblico. Tutto è molto stimolante, soprattutto il mondo aziendale che spinge ad osare, mixare, creare tendenze. Le aziende vogliono la novità perché anche l’allestimento dell’evento li rende più concorrenziali, e in questo modo siamo spinti, noi di Olivia Brusca, a cercare sempre nuovi spunti. Succede soprattutto nelle collaborazioni all’interno del mondo della moda, naturalmente».
∎ Da quanti anni esiste Olivia Brusca?
«Olivia Brusca esiste da sei anni, mentre la mia carriera nel mondo dei fiori è iniziata a 25. Ho fatto un percorso “all’inverso”: ho iniziato con professionisti negli eventi moda, con composizioni molto all’avanguardia; poi sono tornata indietro a imparare la tecnica con un corso di Federfiori. Dopo il corso ho iniziato a fare la freelance, e raccontavo di me in un blog personale: la gente ha iniziato a conoscermi così. Poi un altro corso, questa volta di flower designer ad Amsterdam, e al ritorno ho aperto Olivia Brusca a Modena, città che mi sembrava aveva spazio per una fiorista un po’ sui generis. Continuavo a scrivere e mostrare attraverso i social il mio lavoro, così in poco tempo la parte degli eventi ha preso il sopravvento. Il trasloco a Bologna è arrivato con l’ingresso di Davide nella mia vita e nel mio lavoro. Davide si occupa di progettazione, grafica e costruzione del prodotto. Spesso si interfaccia con i clienti al mio posto… in fondo quella più Brusca resto io!».
∎ Quindi non esiste più il mazzo di fiori fatto da Olivia Brusca?
«Esiste, esiste! Vendo ancora i mazzi di fiori, ma passando dallo shop online e solo nei dintorni di Bologna e provincia. Siamo alla ricerca di un corriere adatto a portare lontano i nostri fiori, che sono per lo più prodotti in agricoltura biologica locale e hanno caratteristiche differenti da quelli più “industriali”, necessitano di più attenzioni e temperature adeguate. In Olivia Brusca e nella nostra vita personale stiamo cercando di introdurre sempre di più il tema della sostenibilità; ci piacerebbe arrivare ad avere la nostra produzione di fiori, ma è una faccenda molto lenta e costosa che richiede contributi statali più veloci».
∎ Cosa vuol dire per un mercato come il tuo essere sostenibile?
«Vuol dire assumersi un rischio. Per una mia esperienza personale, scegliere prodotti sostenibili è rischioso perché hanno reperibilità e stagionalità molto diversa da quelli più comuni, e perché vanno acquistati più fiori rispetto a quelli che servono, perché non tutti sono esteticamente presentabili. Durante un evento non puoi permetterti di non aver abbastanza fiori o peggio, di averli “stanchi”. È importante capire il valore di questa produzione, perché non si tratta solo di sostenibilità ambientale ma anche di acquisto etico. Con etico intendo che la scelta della filiera biologica del piccolo produttore è la più rispettosa della stagionalità e permette di sostenere il lavoro dell’artigiano stesso: due valori da riscoprire. Nel mercato questo è ancora un aspetto di nicchia, che però dovrebbe diventare comune e aver un valore commerciale».
∎ Come, secondo te?
«Se ci fosse la possibilità di avere contributi e garanzie statali sarebbe un passo importante. Tantissimi giovani hanno voglia di riscoprire l’agricoltura, il valore della terra e del prodotto agricolo, ma ad oggi è difficilissimo. Ad esempio, non basta prendere un campo: per poterci fare agricoltura biologica devono passare anni, in modo che non resti traccia dei residui chimici precedentemente usati; servono conoscenze approfondite, macchinari e un investimento iniziale piuttosto importante. Insomma, il rischio che le cose non funzionino è più alto, ma se questa è la strada che deve prendere l’agricoltura, dovrebbero esserci degli aiuti che consentano di farlo. In più, occorre un cambio di mentalità nel consumatore: non si dovrebbe più acquistare il fiore per l’occasione speciale, ma per sé, come si comprano la frutta e la verdura, come nutrimento per lo spirito invece che per il corpo; e allora anche il discorso sul biologico sarebbe spontaneo».
∎ A proposito di acquisti di fiori, quali trend vedi in atto?
«Come fiore in sé, sicuramente sono di moda quelli “retrò”: Anthurium, Gypsophila, crisantemi, Dianthus. Si è tornati all’utilizzo di materiali secchi, proprio per un discorso di recupero. Richiestissime ancora le foglie di eucalipto, che ormai è stravisto ma è anche il verde che secca meglio, e quindi intercetta il nuovo trend. Dal lockdown in poi vedo molta voglia di colori vivaci, ad esempio l’asparagus colorato, le pampas e le foglie di palma, ridipinte. Le piante da interno sono più richieste rispetto qualche mese fa. Prendersi cura di qualcosa, vederla crescere, moltiplicarsi e raccoglierne i suoi frutti ci rende più sicuri di noi stessi. C’è un senso di riscoperta della casa, e il desiderio di crearsi in casa un tempo e uno spazio per il proprio benessere attraverso angoli green, aiuta. Abbiamo venduto l’alocasia, la begonia maculata che è stato un must della scorsa primavera, e ricadenti come ceropegia. C’è richiesta di piante resistenti: la disponibilità economica è calata e di conseguenza chi acquista chiede un prodotto più duraturo: Pothos, pianta ragno, sansevieria e zamia le più gettonate».
∎ Con lo stop causato dal Covid di cosa ti sei occupata?
«Ho attivato lo shop online! Fino a quel momento non avevo tempo. Fermati gli eventi, avevamo bisogno chiaramente di vendere, ma soprattutto di interfacciarci con il cliente, di capire chi c’era dall’altra parte e cosa desiderava. Abbiamo attivato lo shop in pochi giorni, caricando le candele colate a mano da noi, gli smudges (erbe essiccate per purificare gli ambienti, che conciliano l’equilibrio… ne avevamo bisogno!), fotografie autoprodotte e grafiche, gadgets scaricabili e stampabili per bambini, oltre a piante e fiori, con consegna solo su Bologna e provincia per garantirne la freschezza. Abbiamo lavorato molto sul packaging, che era un punto debole (e c’è ancora da fare, ma siamo sulla giusta rotta!). Intanto leggevo di mamme alle prese con home working poco gestibili e persone annoiate e isolate. Ho pensato di condividere gratuitamente il mio sapere ed esperienza tramite una newsletter in cui raccontavo come curare le piante tra consigli e ricette di famiglia, aneddoti e ricordi, potesse esser un modo per rimanere in contatto e usare quello spazio e tempo sospeso che ci siamo trovati a vivere».
∎ Cosa vedi nel futuro della tua professione?
«Vedo più sostenibilità, coltivazione autonoma, riciclo: non potremo continuare a usare i fiori per un giorno e poi buttarli. Penso che ci sarà sempre più competizione, perché molti giovani sono interessati anche se questo non è un lavoro facile, è duro, concorrenziale. E poi, servono idee nuove, ma le idee nuove circolano meglio se costruiamo una comunità di professionisti. Nella mia carriera ci sono state molte persone che hanno creduto in me, senza le quali non ce l’avrei fatta, probabilmente. Persone che non appartenevano al mondo fiori, ahimè, dove invece ho provato sulla mia pelle invidie e sgarbi».
∎ Perché?
«È un settore difficile quello dei fioristi, che patisce molto il clima da “primadonna”. Nei corsi lo dico sempre: non capisco perché dieci medici riescano a lavorare insieme e salvare una vita, mentre dieci fioristi non riescono a restare nella stessa stanza. Soprattutto i più anziani mi guardano con sospetto: pensano che sei tu ad aver cambiato il concetto del fiore, non rendendosi conto che sono loro che non sono cambiati insieme alle esigenze dei consumatori. Le rose rosse con intorno la Gypsophila, vendute con un margine del 40%, rendono quel prodotto imprendibile alle persone con stipendi “medio-bassi”. Io ho cercato strade alternative, fiori diversi con margine diverso, e ho intercettato la domanda dei consumatori, che altrimenti non avrebbero più comprato i fiori. Insomma, deve cambiare il concetto: si possono creare cose molto belle con materiali semplici e prezzi accessibili a tutti».
∎ Cosa serve allora ai fioristi per ripartire?
«Servono sensibilità e curiosità. Serve una rete che sia sostegno e stimolo per tutti. E serve la voglia di vedere quello che abbiamo già a disposizione, di rimboccarci le maniche e di rimetterci a vangare la terra, magari, invece di andare a comprare le rose coltivate in Etiopia. La sostenibilità, l’ecologia, il rispetto per l’ambiente e per i lavoratori sembrano solo parole di moda, ma se diventassero davvero il cambiamento, la tendenza, io sarei la prima a sostenere e a incoraggiare questa moda!».